«Se Botta ha guardato Piccio e Mosè Bianchi, Faruffini e Ranzoni, con amore per questi ingegni,
non ha goduto solo delle loro opere, non ha saputo soltanto distinguere in quel che avevano e di vivo e di morto, non le ha viste soltanto ricomporsi in alcune rare personalità di artisti, in tutta la loro crescente grandezza, nella loro coerente formazione, ma ha sentita tutta la più estesa testimonianza ch’esse offrono. N’ha visto uscire la realtà storica d’un movimento d’arte lombarda: ci ha sentito dentro la sua coscienza,il movimento di rinnovazione dell’arte italiana e il suo valore europeo ». Con tali parole Raffaello Giolli nel 1916 presentava l'animo collezionistico di Gustavo Botta, poeta, critico letterario e amatore d'arte. La sua raccolta, presentata da Enrico Somrè, è un tributo all'arte italiana dal Settecento al primo Novecento. Se primeggiano gli artisti dell' Ottocento lombardo, è anche vero che Botta, quasi seguendo una logica di continuità, si interessò anche ad un gruppo di artisti sofferenti della tradizione ottocentesca e ansiosi, a un tempo, di carpire altri motivi d’arte che si ispiravano quel principio di modernità e di progresso pittorico. E in questa parabola storico-artistica si inserisce anche la rosa di opere appartenenti agli artisti veneti del Settecento che contribuiscono a rendere la collezione di Gustavo Botta la prima raccolta milanese in ordine di tempo ed una delle maggiori per la sua importanza.